Giornata internazionale parto a domicilio Il parto in casa raccontato da un papà

Scritto da Ostetriche Oasi il 18/05/2016

pietro blog

Venerdì 6 Novembre. Alle 7 suona la sveglia. La rimando. Mi giro. Carmen è sveglia. Strano. Con il telefono in mano. Molto strano! “Penso di avere delle contrazioni”.

Ora sono decisamente sveglio anche io. Sta cronometrando e mi dice che sono partite alle 6 del mattino, ogni 6-8 minuti circa.

“Come stai?” “Abbastanza bene” “Ci siamo?” “Non lo so”, mi risponde e sul suo viso vedo sovrapporsi eccitazione, paura e tanta incertezza.

Oggi è il settimo giorno di ritardo, ammesso che di ritardo si possa parlare, visto che mamma e bambino non sono dei treni che rischiano di perdere la coincidenza. Non sarà ritardo dunque, ma l’attesa iniziava a farsi sentire. Ti stavamo aspettando. Oggi può essere un buon giorno per nascere, abbiamo scampato Halloween, Santi e morti, c’è il weekend davanti e soprattutto io oggi sono a casa. E’ un buon giorno per incontrarsi, ma subito il primo dubbio: oggi dovremmo andare in ospedale per il controllo oltre il termine, espressione che ti fa già sentire come se qualcosa non andasse, come quando paghi in ritardo il bollo della macchina. Ecografia, tracciato, magari una mora da pagare? Che fare?

Carmen ha le contrazioni, ma non è sicura che siano contrazioni. Paradossi da travaglio. Sa solo che di uscire proprio non ne ha voglia. Ma se non andiamo stamattina nessun controllo fino a lunedì. Ansia, dubbi, decisioni da prendere. Io posso solo guardare, sentire, a me sembrano proprio contrazioni, ma non posso dirlo di certo io. Però posso ricordarmi quello che ho imparato al corso con Noemi, l’importanza dell’ambiente, di una situazione di agio per favorire il procedere degli eventi.

Abbiamo scelto la nostra casa come luogo sicuro, come luogo di nascita, allora forse qui conviene rimanere. Come quando accendi la stufa e il fuoco timidamente inizia a prendere. Ci va delicatezza, va alimentato. Un’uscita in ospedale mi pare come il pezzo di legna troppo grosso che rischia di soffocare il fuoco. Carmen sta bene: rimaniamo a casa. Nel frattempo ci sentiamo alcune volte al telefono con Gisella, ci aiuta a pensare, ci lascia decidere, è presente. Le prime ore della mattina passano così veloci, tra qualche dubbio, una colazione molto leggera (altra cosa molto strana per Carmen) e per il resto a letto, vivendo 7-8 minuti per volta, aspettando la prossima, io coricato lungo la sua schiena, abbracciati, tra una e l’altra, massaggiandola forte, durante.

Brava Carmen, continua così! Sono contento di essere d’aiuto, sono contento di esserci. Il tempo passa veloce, io mangio, Carmen no. Ne avrebbe bisogno, ma non riesce.

Nel primo pomeriggio le contrazioni si fanno più dolorose. Qualcosa non va. Il dolore non segue più quella regolare e tipica curva in cui sale, raggiunge il picco e scende. C’è dell’altro, degli spasmi, dolorosi e inattesi, che la prendono alla sprovvista, le spezzano il fiato, le bloccano la voce, che mi fanno soffrire mentre le sto vicino. Chiamiamo Gisella, non c’è fretta, ma iniziamo ad aver bisogno di te! Poco dopo arriva, lascio Carmen alle sue cure e inizio i preparativi: accensione stufa, gonfiaggio piscina, riempimento piscina. Il tutto porta via un po’ di tempo. E’ difficile sentire i suoi lamenti al piano di sopra, così inizio a salire e scendere, nel frattempo si stacca la pompa dal lavandino e si allaga il bagno. Bene, ci voleva giusto un contrattempo! Così tocca rimediare.

Alla fine è tutto pronto, sono quasi le 18 credo. Carmen inizia a essere parecchio provata, maledette contrazioni a spasmo! E’ provata, io pure (ma me lo tengo per me). Ha voglia di immergersi. Bene, non è stato tempo perso! L’acqua è calda, sui 40°, ma ci si immerge con piacere e sollievo. Dai, si procede! Siamo in soggiorno, la piscina davanti alla stufa, il cd con i mantra della vicina di casa, le candele che scaldano la penombra. Carmen nuda, stanca, ma bella, continua il suo travagliato travaglio. L’acqua aiuta, ci starà a mollo fino alla fine, più di 4 ore. Una breve faticosissima uscita per farsi controllare da Gisella e di nuovo dentro. Cambia posizione, io da fuori continuo a massaggiarle la schiena, sempre più vigorosamente, ad abbracciarla, sussurrarle parole. Lei quasi non parla, quindi vado a istinto. Ogni tanto Gisella mi dice di provare a farle bere qualcosa, ma fa proprio fatica.

Intanto iniziano le spinte, i lamenti diventano ruggiti. Il dolore aumenta, ma al tempo stesso la fine si avvicina e spingere rende il confronto con il dolore meno passivo. Non ho paura, la vedo forte, stanca ma forte, il volto che si trasforma nello spasmo, diventa il muso di una tigre. Gisella osserva, tocca, monitora, chiede e ascolta. Non parla molto, quello che serve a rassicurare sul fatto che tutto procede. Ci protegge e ci guida, entrando e uscendo dalla nostra bolla, senza mai farla scoppiare, diventando man mano sempre più presente.

Le spinte aumentano, di intensità e frequenza. Arriva anche Simona, in punta di piedi, e la matrioska è completa: il nostro bimbo dentro Carmen, io intorno a lei, Gisella ad accompagnarci e Simona a controllare dall’esterno, appuntando dati, dettando i tempi a Gisella, ravvivando pure il fuoco, visto che oramai da un po’ io non sono autorizzato ad allontanarmi da un centimetro dalla mia tenera tigre.

Ma quanto cavolo durano ste spinte? E’ più di un’ora che ho la sensazione che ci siamo quasi, ma così non è. Carmen continua a dire sempre più spesso che non ce la fa più. Sappiamo entrambi che ce la farà, ma inizia ad essere davvero tosta. Parliamo anche a Pipi, lo stiamo aspettando, può uscire, lo rassicuriamo, cantiamo per lui sulle note di Mannarino, “scendi giù pipi, scendi giù..” Carmen inizia a sentir bruciare la sotto, ora dovremmo esserci sul serio!

Gisella suggerisce alcuni cambi di posizione e la situazione inizia ad accelerare vistosamente. “Sento la testa!”. Gisella si gira di scatto, colta di sopresa, si avvicina di corsa alla piscina, scivola e si rialza in un lampo (più tardi rideremo di questa scena, ma ora c’è altro a cui pensare). Stiamo per conoscere nostro figlio. Io e lei in piedi, abbracciati, dondolando sfiniti (anche io, ma non posso dirlo). L’accompagno giù, per l’ultima spinta, ruggisco con lei.

E’ uscito, lo vedo galleggiare dietro la sua schiena. Gisella lo recupera e lo tira fuori dall’acqua. Oh mio dio! E’ grigio, molle, inerme e immobile. Panico. Gisella ci dice che sta bene, ma questa volta è difficile fidarsi: nei nostri occhi un’immagine troppo diversa dalle sue parole. “Perchè non piange?” chiede Carmen al limite del crollo psicofisico. Pochissimi interminabili secondi e poi i primi gorgoglii che lasciano spazio al pianto, suo e della mamma.

Respiriamo, insieme a lui, che trova posto, il suo posto, tra le braccia della mamma. Si, mamma, ora lo sei… Quindi io sono papà? E’ ufficiale? Non piango. Contrariamente alle volte in cui questo momento l’ho vissuto in sogno, non piango. Forse perchè nel sogno l’emozione arrivava tutta insieme, mentre questa è stata una maratona. E ora vedo per la prima volta nostro figlio, Pipi, forse Nicola. Avevamo detto che se aveva il naso largo Nicola, se no Jacopo. Il naso è da Nicola, ma per ora è ancora Pipi. Mamma, assomiglia alla mamma. Ma scorgo anche le mie mani e i miei piedi, lunghe dita, per nulla da neonato, che si avvinghiano al mio. E’ tutto vero.

E’ arrivata anche Noemi, è entrata nella stanza insieme a Pipi, sia pur in modo diverso! E’ arrivata sul gong, sono contento, non poteva mancare. Carmen è ancora seduta in acqua, il bimbo tra le sue braccia, lei tra le mie. Siamo una famiglia. Da pochi minuti o forse da sempre. Pazzesco. Il tempo sembra fermarsi, lo studiamo, ci baciamo, lo tocchiamo, gli cantiamo la prima canzone, lo dondoliamo nell’acqua, poi ad un tratto Carmen cambia espressione, si piega in un lamento, una nuova spinta.

“Cosa succede?” “La placenta!” Cavolo è vero, per me era già tutto finito. Per me appunto. Ma fortuntatamente esce subito e senza troppa fatica (credo). La prendono, ce la fanno vedere. Ammazza che bisteccona! E’ anni che non entriamo in macelleria, ora ce l’abbiamo in casa. E’ davvero grossa. Per un po’ galleggia in una ciotola nella vasca. La ciotola in cui grattugio le carote ora contiene una placentona. Simona più tardi ce la mostrerà facendocene anche ammirare la sua ramificata bellezza. Per Carmen però ora è tempo di uscire dall’acqua, il divano l’attende per il primo controllo e il meritato riposo.

Nel frattempo io e mio figlio rimaniamo insieme. Mezz’ora, forse meno, forse più, pelle a pelle, la sua pancina nuda sul mio petto. Un asciugamano a coprirlo. Dio che piccolo e come sguscia con la sua pelle ricoperta da una leggera patina oleosa. Non sono esattamente disinvolto nel maneggiarlo, così pian piano mi scivola su un fianco. Sembra comodo lo stesso. Non gli tolgo gli occhi di dosso, non mi muovo nemmeno, nonostante sia abbastanza scomodo sulla sedia.

Pian piano acquista un colorito più sano, dorme: anche lui ha faticato parecchio. Ci avviciniamo alla mamma, lei sul divano, io sulla poltrona, la placenta sulla sedia, ancora collegata al bambino, per dargli i suoi ultimi doni, attraverso un cordone che man mano si raffredda. La mamma sta bene, distrutta, ma non devastata, la guardo, orgoglioso del lavoro che ha fatto, e poi guardo l’affarino sul mio grembo, orgoglioso del risultato.

Ora la mamma è pronta, può riunirsi a suo figlio, lo prende, lo saluta e lo nutre, per la prima volta, con una naturalezza commovente, come non potesse essere altrimenti. E’ stupendo vederli insieme. Le nostre ostetriche, dopo aver controllato, curato e rassicurato la mia famiglia ci fanno un regalo bellissimo: del tempo solo per noi. Svaniscono in camera nostra, al piano di sopra, lasciandoci soli a goderci il miracolo appena compiuto. Non so per quanto, ma non ha importanza, è stato un tempo senza tempo.

Al loro rientro concludono i loro controlli, pesano il bimbo (un bel vitellino da 3,9 kg) e scongeliamo una pizza, affettiamo pane e formaggio, stappiamo qualche birra. Finalmente anche Carmen è pronta a rifocillarsi. Brindiamo. Ci voleva. Le nostre fate svolazzando di qua e di la, riordinano il soggiorno, svuotando e smontando la piscina: che meraviglia!

Carmen non se la sente di fare le scale, apriamo il divano letto, ce lo preparano (vi adoro), gli ultimi saluti e ci lasciano soli, per la prima magica notte in 3, anzi in 4, perchè in via del tutto eccezionale anche Bilbi (il nostro gatto), si infila con noi, insolitamente discreto. Fuori alcune stelle cadenti solcano la notte. Una grande luna sorride in basso nel cielo. La nostra prima notte. La nostra nuova vita. Sogni d’oro piccolo mio.

La voce di Carmen

Leggo il racconto con foga ed emozione, desiderosa di sapere come va a finire ma.. un momento… io lo so come va a finire! Sono proprio io quella donna, quella tigre che ruggisce.

Caspita, non mi riconosco! Si, perchè è proprio così, durante il parto ci si trasforma, e nonostante per giorni dopo io abbia affermato più volte che non avrei mai più avuto figli, ad un mese e mezzo da quel magico giorno, quel che mi rimane è la forza, la potenza, la sensazione di aver compiuto un’impresa miracolosa.

E poi arriva tanta, tanta soddisfazione nell’aver portato a termine questo viaggio proprio così come l’avevamo programmato, proprio così come ce l’eravamo immaginato, come coppia, come famiglia, come progetto insieme a Gisella. Queste tre ostetriche io me le porterei a casa, hanno saputo accompagnarci ed accoglierci ognuna a modo suo, facendoci vivere un’esperienza impagabile.

E per ultimo la consapevolezza che questa bella nascita è frutto di decisioni che per una volta sono state prese ascoltando prima l’istinto e poi la ragione, che se non lo si fa per un evento così primordiale come il mettere al mondo una vita, quando lo si fa?

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